Caro Pci, vogliono cancellarti: quelli che ti ricordano come “partito antisistema” non ti capiranno mai

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Caro Pci, vogliono cancellarti: quelli che ti ricordano come “partito antisistema” non ti capiranno mai

Caro Pci, vogliono cancellarti: quelli che ti ricordano come “partito antisistema” non ti capiranno mai

Paradossi

Polemica con Sergio Fabbrini che dalle colonne del “Sole” ci presenta la sua tesi: il partito di Togliatti, che scrisse la Costituzione e costruì il sistema, era in realtà, come il Msi, un partito antisistema

@Archivio Lapresse
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Erano decenni che non si leggeva una trattazione così effimera sulla memoria del rimpianto Pci. Impegnato in un elogio degli “importanti risultati del governo della destra” radicale, Sergio Fabbrini sul “Sole 24 Ore” ne ha approfittato per rovistare fra le antiche cianfrusaglie. E ha pescato un ferro vecchio, che era caduto in discredito negli studi politici più rigorosi: il Pci, al pari dell’Msi, come “partito antisistema”, secondo la celebre formula coniata da Sartori.

Nella sua ricerca su adattamento e trasformazione dei comunisti italiani, Sidney Tarrow aveva però concluso che “da un punto di vista analitico, la distinzione fra partiti del sistema e partiti antisistema ha perso ogni utilità”. Anche Robert D. Putnam, sondando l’ideologia del gruppo dirigente, consigliò di sbarazzarsi della immagine del Pci come soggetto alienato. Simili “categorie concettuali – scrisse – non servono più”, poiché i quadri comunisti, data la loro cospicua originalità identitaria, “non possono essere localizzati in nessun punto dello spettro ortodosso che va dal bolscevismo alla socialdemocrazia”. Il ruolo istituzionale effettivo svolto dalla giraffa togliattiana nel consolidamento repubblicano imponeva, così suggeriva anche il costituzionalista Fulco Lanchester, di gettare al macero un approccio “ideologico-demonologico”. Con lo schema arbitrario che lo considerava un corpo “antisistema”, del Pci si mettevano in dubbio in maniera del tutto preconcetta le credenziali democratiche. A una tale ermeneutica traballante non esita a ricorrere ora Fabbrini, che snocciola ipotesi degne di una scuola del sospetto per smascherare “le ambiguità della cultura comunista”.

Naturalmente, sempre a sostegno dell’attuale “coerenza del governo italiano”, egli si spende con dedizione assoluta per dimostrare quanto il Pci fosse “eccentrico rispetto al sistema occidentale”. La scoperta è di quelle sensazionali: mentre a Botteghe Oscure operavano i complici del nemico cosacco, a Colle Oppio veniva educata una pattuglia di futuri statisti confacente all’Occidente come civiltà. Non solo costoro non sfigurerebbero tra le file dei Popolari a Strasburgo, ma, proprio grazie alle capacità acquisite al potere, con Meloni “l’Italia non è ai margini dell’equilibrio europeo”. Al di fuori dell’equilibrio (della logica, in questo caso) sgambetta invece l’articolista, quando asserisce che gli eredi di Gramsci dovevano finire all’angolo in qualità di compagine sleale “nonostante che il Pci avesse contribuito alla elaborazione della Costituzione”. Insomma, in base alla logica non aristotelica di Fabbrini, un attore che costruisce il sistema – giacché firma quale protagonista centrale la Carta fondamentale – merita di essere annoverato come l’antagonista del sistema medesimo.

Richiamandosi a meta-valori, eccedenti il testo del 1948 e quindi frutto nient’altro che di private credenze promosse a “sistema”, Fabbrini accusa la sinistra di aver nutrito una imperdonabile istanza critica verso il capitalismo. Quasi che fosse proibita qualsiasi contestazione dei rapporti proprietari, il politologo si rallegra della sterzata con cui per fortuna “l’anticapitalismo è stato progressivamente rielaborato (prendendo atto che esiste una varietà di capitalismi)”. La repubblica mica è stata edificata dal quarto partito, quello dei padroni d’azienda e dei loro organi che si acconciano a fare i giudici pronti a sanzionare “l’anticapitalismo, l’antiliberalismo, l’antieuropeismo”. È impossibile cancellare dalla storia repubblicana le ideologie politiche dei partiti di massa, in grande misura estranee al sacro culto del capitale.

A detta dell’editorialista del “Sole”, l’indelebile pecca che rese il Pci un’entità antisistema è di avere espresso “una cultura che aveva a lungo rifiutato di riconoscere la connessione tra economia di mercato e libertà politiche, che aveva continuato ad interpretare queste ultime come libertà borghesi”. In realtà è lo stesso Fabbrini, con la frase appena riportata, a postulare il carattere “borghese” delle regole e delle procedure competitive (“libertà politiche”) allorché ne stabilisce l’organico collegamento (“connessione”) con la formazione sociale capitalistica (“economia di mercato”). Il censore, che esalta la pregnanza pedagogica della “critica, anche la più aspra, all’ambiguità comunista”, concede, bontà sua, che nel Pci dopo un interminabile apprendistato “l’antiliberalismo è stato progressivamente mitigato (facendo propria la cultura costituzionale dei diritti)”. Come se la disposizione di maggior impronta liberale e garantista della Costituzione, la numero 13 (“La libertà personale è inviolabile”), non fosse stata redatta da un padre della Repubblica, un esule che aveva l’abitudine di riversare sui fogli un inconfondibile inchiostro di colore verde. Era soprannominato “il Migliore”.

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